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Indiana Jones e il quadrante del destino

La valutazione della Commissione CEI

Parole chiave: film (81)
Il film di James Mangold

Stati Uniti 1969, quando il mondo ha gli occhi in su per seguire l’allunaggio, all’Hunter College di New York è l’ultimo giorno di lavoro per il prof. Henry Walton Jones Jr. Il celebre archeologo e accademico è al termine della carriera. Non sono però giorni rosei: è infatti stanco, ammaccato da troppe spericolatezze, solitario e dolente nell’animo. Ha perso il figlio in guerra e la moglie Marion per troppo dolore lo ha lasciato. Bussa alla sua porta la figlioccia Helena Shaw, la figlia del collega-amico Basil. Insieme i due studiosi avevano recuperato nella Germania nazista, nei burrascosi frangenti della Seconda guerra mondiale, il Quadrante di Archimede, un marchingegno capace di individuare fenditure nel tempo. Sulle tracce del prezioso reperto c’è anche l’ex gerarca nazista Jürgen Voller, che ora collabora sotto mentite spoglie con la Nasa…

Valutazione Pastorale

Basta un giro di note, quelle del Premio Oscar John Williams, e subito si sente il profumo di avventura, il brivido di una nuova trascinante impresa al seguito dell’archeologo più famoso, Indiana Jones, geniale studioso dal temperamento “ruvido” entrato nell’immaginario collettivo grazie a frusta, cappello “fedora” e giacca in pelle logora. Ma è soprattutto il volto del suo interprete, Harrison Ford, ad averlo reso memorabile: personaggio e attore sembrano coabitare. Le prime avventure risalgono all’osannato decennio ’80 – “I predatori dell’arca perduta” (1981), “Il tempio maledetto” (1984) e “L’ultima crociata” (1989) – e portano la firma di due “divinità” di Hollywood: Steven Spielberg e George Lucas. Nel 2008 è stato rimesso in pista il franchise con “Il regno del teschio di cristallo”, ma l’asse narrativo era un po’ scricchiolante. Dal 28 giugno arriva in sala un nuovo revival, il quinto e ultimo capitolo della saga: “Indiana Jones e il quadrante del destino” per la regia di James Mangold. Tra cast originario, Ford in testa, e nuovi ingressi come Phoebe Waller-Bridge e Mads Mikkelsen, il film si riallinea con più convinzione e vigore sul binario della trilogia cult, regalando vibranti emozioni e anche un poco di commozione.

“È un personaggio che riesce sempre a sorprenderci – dichiara il regista James Mangold – Può essere egoista, può essere empatico, può essere coraggioso, può essere un codardo. E Harrison riesce a mostrare tutti questi elementi contraddittori contemporaneamente. Indiana Jones non è un eroe greco del monte Olimpo: è un personaggio estremamente umano. Credo che tutte le sue eccentricità, le sue ansie, le sue nevrosi e le sue debolezze facciano parte del suo fascino. Ma ha anche un superpotere: è incredibilmente fortunato”. Mangold, regista newyorkese classe 1963, che ha firmato opere come “Walk the Line” (2005) su Johnny Cash e June Carter e “Le Mans ’66” (2019), si è messo al timone del quinto episodio della saga di Indiana Jones, il primo non diretto da Spielberg, dimostrando idee chiare tra un esplicito desiderio di omaggiare il celebre universo narrativo e al contempo dare freschezza, un appeal di novità, al racconto, senza però sbandare in sentieri improbabili come sperimentato in “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo”. Possiamo sgombrare subito il campo da paure e perplessità: “Indiana Jones e il quadrante del destino” (“Indiana Jones and the Dial of Destiny”) soddisfa le attese e si rimette degnamente in linea con la trilogia capostipite. Non è però solo un’operazione puramente nostalgica, ma fa evolvere i personaggi e si sforza di tracciare una rotta nitida di progressione temporale-narrativa, provando ad ancorarla con coerenza. In questo quinto capitolo, il dato chiaro è la stagione della terza età di Indiana.

È venuto il momento della pensione, sia nel racconto che nel ciclo cinematografico: il corpo scricchiola, l’animo presenta ferite e amarezze, su tutte il figlio perduto e la moglie che ha scelto di prendere le distanze da lui. Questa linea del racconto “family-sentimentale” affascina perché accanto a Ford ritorna per la terza volta Karen Allen nel ruolo di Marion. Sul volto di entrambi leggiamo i segni del tempo, ma anche una bella luminosità autentica, un rapporto con il ciclo della vita attraversato correttamente, sanamente. Al tempo non ci si può sottrarre, ma lo si può abitare con consapevolezza. Non c’è una nostalgia “malsana”. Non è un voler rimanere ancorati al passato a tutti i costi. Qui, nel “Quadrante del destino” figurano da un lato l’evoluzione del protagonista fino all’età in cui le avventure spericolate iniziano a pesare, come pure i fardelli interiori, dall’altro il racconto disseminato di riusciti omaggi e gustose citazioni. Anzitutto l’introduzione del film ci riporta nei sentieri della Germania nazista, la corsa alla ricerca di preziosi reperti minacciati dalla brama di potere del Terzo Reich, proprio come ne “L’ultima crociata” (vero è anche ne “I predatori dell’arca perduta”), dove Harrison Ford condivideva la scena con Sean Connery, nelle vesti del padre Henry Jones. Episodio cult della trilogia, che i due divi hollywoodiani hanno reso indimenticabile.

Ancora, quando Indy e la figlioccia Helena, anche lei archeologa, si addentrano nell’Orecchio di Dionisio a Siracusa sembra di essere di nuovo tra le mura del “Tempio maledetto”, così come il trio che si instaura tra Indy, Helena e l’adolescente Teddy (Ethann Isidore) ricorda tanto quello tra Ford, Kate Capshaw e Ke Huy Quan (il Data dei “Goonies”, Premio Oscar 2023 per “Everything Everywhere All at Once”). Infine, il rimando a “I predatori dell’arca perduta” si coglie nella ricerca del prezioso manufatto, il Quadrante di Archimede, ma anche per il legame a corrente alternata con l’amata Karen Allen. Su questo non aggiungiamo altro, per non rovinare la sorpresa agli spettatori. Azione e avventura sono le direttrici di ogni film su Indiana Jones. Come racconta il regista Mangold dal suo incontro con Spielberg: “Tra tutti i consigli che mi ha dato, quello che è rimasto con me ogni giorno riguardava il ritmo: realizzare un film di Indiana Jones è un po’ come realizzare un trailer lungo come un film. Il film non deve mai fermarsi per troppo tempo”. Così nel “Quadrante del destino” dinamiche e spostamenti di location sono serrate: si va dalla Germania nazista alla New York del 1969, per passare al Marocco, alla Grecia e infine alla Sicilia. Nella cornice di Siracusa va in scena una lunga, avvincente, sequenza che fonde il ritratto del Belpaese nelle sfumature della cartolina amata dagli americani con sguardi antichi che attiveranno non poco cine-turismo all’uscita del film. Che dire di più? Bentornato Indiana Jones. L’operazione cinematografica del “Quadrante del destino” è di certo riuscita e ben congegnata. Tornano tutti i capisaldi del racconto, in una girandola di azione, avventura, emozione, ironia a briglia sciolta – per gran parte affidata a Indy/Ford – e dolce malinconia.

Con Indiana Jones si ritrova un vecchio amico, che non delude. La storia, nei volteggi finali, potrebbe risultare a tratti forzata, quasi sulla via del meno riuscito capitolo 4, ma in verità sembra reggere con coerenza, perché sa direzionarsi verso una sorta di “Eden” dell’archeologo Jones, il posto di elezione per ogni grande studioso del passato. Infine, un’ultima parola su Harrison Ford: abita il suo personaggio con mimesi, aderenza, così naturale da sembrare non un altro da sé, bensì come un pezzo di sé, del suo carattere, della propria vita. Personaggi come Indiana Jones sono rari nel corso di una carriera, per non dire unici. Ford ha saputo amarlo e rispettarlo con cura, senza prenderne mai le distanze o “rovinarlo”, un po’ come ha fatto l’altra icona di Hollywood Tom Cruise con Pete “Maverick” Mitchell in “Top Gun”. Applausi, applausi. Consigliabile, semplice-poetico, per dibattiti.

Il film di James Mangold
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