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Tutto concorre al bene dei figli di Dio

L'omelia integrale di mons. Giusti

Parole chiave: 8 settembre (11), montenero (63)
Le parole del Vescovo a Montenero

La genealogia o la carta d’identità di Gesù

Oggi, 8 settembre, festa della Natività di Nostra Signora, il vangelo riporta la genealogia o la carta d’identità di Gesù. Per mezzo dell’elenco degli antenati, l’evangelista racconta alle comunità chi è Gesù e come Dio agisce in modo sorprendente per compiere la sua promessa.

La carta d’identità di Gesù ha molti nomi. Nell’elenco dei nomi c‘è una grande novità.

In quel tempo, le genealogie indicavano solo il nome degli uomini. Per questo, sorprende che Matteo metta anche cinque donne tra gli antenati di Gesù: Tamar, Raab, Ruth, la moglie di Uria e Maria. Perché scelse proprio queste cinque donne, e non altre?

Questa è la domanda che il vangelo di Matteo lascia a noi.

Il messaggio delle cinque donne citate nella genealogia

Gesù è la risposta di Dio alle aspettative sia dei giudei che dei pagani, pero lo è in modo completamento sorprendente. Nelle storie delle quattro donne dell’AT, citate nella genealogia, c’è qualcosa di anormale. Le quattro erano straniere, concepirono i loro figli fuori dagli schemi normali del comportamento dell’epoca e non soddisfanno le esigenze delle leggi di purezza del tempo di Gesù.

Tamar, una cananea, vedova, si veste da prostituta per obbligare Giuda ad esserle fedele e a dargli un figlio (Gen 38,1-30).

Raab, una cananea, prostituta di Gerico, fece alleanza con gli israeliti. Li aiutò ad entrare nella Terra Promessa e professò la fede in un Dio che libera dall’Esodo. (Gs 2,1-21).

Betsabea, una ittita, moglie di Uria, fu sedotta, violentata e messa incinta dal re Davide, che oltre a ciò, ordinò di uccidere il marito (2 Sam 11,1-27).

Ruth, una moabita, vedova povera, scelse di restare con Noemi ed aderire al popolo di Dio (Rt 1,16-18). Consigliata da sua suocera Noemi, Ruth imita Tamar e passa la notte insieme a Booz, obbligandolo ad osservare la legge e a dargli un figlio. Dalla loro relazione nasce Obed, il nonno del re Davide (Rt 3,1-15;4,13-17).

Alla fine, il lettore si pone la domanda: “E Maria? C’è in lei qualche irregolarità? Qual è? La risposta ci viene dalla storia di San Giuseppe che segue nel testo di Matteo (Mt 1,18-23). L’irregolarità in Maria è che rimane incinta prima di convivere con Giuseppe, suo promesso sposo, uomo giusto. Gesù disse: “Se la vostra giustizia non è maggiore della giustizia dei farisei e degli scribi, voi non entrerete nel Regno dei cieli”. Se Giuseppe fosse stato giusto secondo la giustizia dei farisei, avrebbe dovuto denunciare Maria e lei sarebbe stata lapidata. Gesù sarebbe morto. Grazie alla vera giustizia di Giuseppe, nacque Gesù.

 

L’inizio e la fine della genealogia

All’inizio ed alla fine della genealogia, Matteo fa capire chiaramente qual è l’identità di Gesù: lui è il Messia, figlio di Davide e figlio di Abramo.

Quale discendente di Davide, Gesù è la risposta di Dio alle aspettative del popolo giudeo. (2 Sam 7,12-16). Quale discendente di Abramo, è fonte di benedizioni e di speranza per tutte le nazioni della terra (Gen 12,13). Così, sia i giudei che i pagani che fanno parte delle comunità della Siria e della Palestina all’epoca di Matteo, potevano vedere le loro speranze realizzate in Gesù. Elaborando l’elenco degli antenati di Gesù, Matteo adotta uno schema di 3 x 14 generazioni (Mt 1,17). Il numero 2 è il numero della divinità. Il numero 14 è due volte 7, che è il numero della perfezione. In quel tempo, era cosa comune interpretare o calcolare l’azione di Dio servendosi di numeri e di date. Per mezzo di questi calcoli simbolici, Matteo rivela la presenza di Dio lungo generazioni ed esprime la convinzione delle comunità che dicevano che Gesù apparve nel tempo stabilito da Dio. Con la sua venuta la storia raggiunge il suo pieno compimento.

Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa Dio con noi.

 

Dio con noi

Non siamo soli, non siamo un capriccio dell'Universo abbandonati a noi stessi come profughi su un gommone in mezzo al mare, nell'incertezza e nella drammatica paura di affondare da un momento all'altro. C'è chi si è preso e si prenderà cura di noi.

Andrà tutto bene perché Dio ha riscattato la sofferenza, il dolore e anche la morte. Non naufraghi ma gente accolta e accasata dall'Onnipotente.

 

Questo tempo di pandemia è l’occasione per rivedere il nostro approccio alla vita

Il coronavirus può diventare una “lectio magistralis “ di antropologia se riusciamo a cogliervi l’appello a un vivere e a un vivere insieme, intessuto nelle trame della vita e della morte, dell’amore di sé e dell’amore dell’altro.

Ci scopriamo tutti deboli e spaventati: la paura è un’emozione che si presenta quando l’uomo teme per la propria sopravvivenza. Il coronavirus non ha la forza delle bombe ma è l’ironia della commedia umana: la fobia dell’invisibilità che caratterizza l’uomo di oggi, si amplia tragicamente col virus, diventa l’invisibilità che porta la morte. Un’invisibilità che ci sta cambiando la vita. Il coronavirus non è automaticamente letale come altre malattie ma ha scatenato un’emergenza capace di far esplodere tutte le contraddizioni e le ingiustizie dei nostri assetti sociali, che mal compongono i diritti e le esigenze tra i forti e i deboli.  Il virus viene a ricordarci che siamo tutti esposti al tocco della morte.

Siamo cresciuti spesso con l’illusione di essere onnipotenti e non abbiamo avuto il tempo di imparare che ogni limitazione richiede la capacità di trasformarsi.

Una specie sopravvive se è capace di cambiamento: è la legge dell’evoluzione.

Il coronavirus può diventare per questo un’opportunità. Si sopravvive se si è capaci del cambiamento, passando dalla frenesia della corsa al vero senso del dimorare. Questo virus è messaggio, che possiamo gestire e poi continuare a vivere come prima o interpretare con saggezza e cambiare, cambiare molto. Come scrisse Albert Camus in occasione di un’altra epidemia,” il bacillo della peste può arrivare e andarsene via senza che il cuore dell’uomo cambi”.

 

Ogni apocalisse è una rivelazione

Nel nostro presente storico il velo che occludeva la nostra visuale è stato rimosso in un modo così violento ma cosa allora noi vediamo? Credo che vengano allo scoperto tre cose.

La prima è quello che gli scienziati vanno ripetendo con insistenza, e cioè che il numero delle epidemie è cresciuto e crescerà.

La seconda cosa è che, nel contesto di questo mondo globalizzato, i nostri stili di vita necessitano di conversione. Costruiamo società mosse dal dogma del profitto e dell’utilitarismo, che operano come mercati massificati che non dormono mai e praticano un drammatico disinvestimento sull’umano (che è vittima frequente dell’esclusione, dell’indifferenza e dello scarto). È quello che papa Francesco dice e ridice fin dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa» (n. 53). La corsa che ci imponiamo è di produrre di più per consumare di più. E abbiamo così disimparato l’essenziale della vita. Ora, ci servono una nuova sapienza, dei modelli più integratori, visioni capaci di dialogare con l’interezza della personalità umana nelle sue diverse dimensioni.

Il Ministro della Salute sembra proprio non aver compreso la lezione di questa epidemia e mentre opera affinché la pandemia finisca, promuove il diffondersi di un’epidemia ancor più perniciosa e letale: quella dell'aborto ora farmacologico. Certo esso fa risparmiare un sacco di soldi allo Stato ma lascia ancor più sole le donne e con il suo corteo sicuro di morte, allarga la voragine del crollo demografico italico.

La terza cosa è che non è sufficiente agire per la paura di morire o per il terrore che ne deriva. Dobbiamo piuttosto rilanciare la nostra alleanza con la vita. C’è una verità nella bellezza del cuore dell’uomo, e in quella del cuore del mondo, che noi siamo chiamati a riconoscere e a ospitare.

 

Credo che il Signore stia mettendo a fuoco un argomento che avevamo trascurato: il Paradiso

Parlare di risurrezione e di vita eterna può creare imbarazzo ad alcuni e sorrisi ironici in chi ascolta perché l’orizzonte di vita per molti oggi, è delimitato dal mito della giovinezza dove l’offerta edonistica è talmente copiosa, da presentarsi essa stessa come “paradiso, giardino delle meraviglie”. Un giovane e come loro tanti adulti, ritengono di ben sapere dov’è il paradiso e di come raggiungerlo: dovranno solo essere il dio di se stessi, determinando da soli ciò che è bene o male, cercando poi di cogliere ogni piacere ritenuto bene per antonomasia. Eppure bisogna tornare a parlarne senza timori, anche se vi sarà, come ad Atene, chi riguardo a questo se ne andrà scuotendo il capo (cfr At 17,4). Il mondo si aspetta dalla Chiesa ben altro che il pronto soccorso dell’elemosina: si aspetta delle ragioni che aiutino ad accettare e vivere con maturità quello che sta succedendo, ha urgente necessità di motivi seri per sperare, ha bisogno di qualcuno capace di aprirgli orizzonti diversi e veri, perché il telone di fondo sul quale per anni sono stati proiettati i deliri di grandezza di questa nostra età, è stato improvvisamente strappato e ha svelato un buio angosciante. La Chiesa deve ripetere instancabilmente a chi oggi, frastornato da quello che accade, cerca «la» buona ragione per vivere e per morire, che la può trovare nella morte e risurrezione di Gesù.”

Le parole del Vescovo a Montenero
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