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Io sono la porta

L'immagine del recinto e delle pecore

Parole chiave: commento vangelo (22)
Commento al Vangelo

+ Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse:  «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».

Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.

Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

chi non entra nel recinto delle pecore

L’immagine del recinto richiama un cortile circondato da un muretto di pietre dove raccogliere le pecore, la parola greca usata è “aulè” utilizzata anche per indicare il cortile del tempio di Gerusalemme. Dunque, questo testo è fortemente connotato dalla polemica nei confronti di chi ha la pretesa di guidare il popolo di Israele ma non passa per la porta. È un male che attraversa la storia e giunge ai nostri giorni: “E nella Chiesa ci sono arrampicatori! Ci sono tanti, che usano la Chiesa … […] E Gesù rimprovera questi arrampicatori che cercano il potere” (Papa Francesco 5 maggio 2014).

 

le conduce fuori

L’immagine della parabola è quella della familiarità del pastore con le pecore che chiama per nome. Il nome non è un elemento meramente identificativo; nell’esperienza semitica è piuttosto l’essenza stessa della persona, la sua missione. Dare il nome o conoscere il nome indica familiarità, conoscenza intima. Il Pastore è dunque colui che conosce nel profondo le sue pecore e soprattutto ne conosce il senso della vita, la missione ed è per questo che le conduce fuori. “Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (EG 20). Lontana dal Signore l’idea di una Chiesa rinchiusa in se stessa in una sorta di auto contemplazione. A quanto pare compito del pastore non è trattenere, ma spingere fuori, oltre il recinto, oltre il tempio, il culto per entrare nel tessuto stesso della storia, dove la vita sfida la fede. Una fede coccolata nel caldo e sicuro ovile non ha senso; a volte fa sorridere chi si definisce credente e non praticante, come se la fede si esaurisse nella pratica cultuale. La fede si alimenta del culto ma si pratica nella quotidianità della vita. Lo sperimentiamo in questi giorni in cui siamo costretti al chiuso della casa e lontani dalla Parrocchia, il culto è diventato “virtuale”, i segni sacramentali appena accennati ma chiamati a vivere la Carità nella famiglia, nel vicinato, in coda al supermercato e alla farmacia…              

 

io sono la porta

La porta è luogo di passaggio da una realtà all’altra, un invito a oltrepassarne la soglia e, proprio perché non appartiene né all’una né all’altra realtà – ma si potrebbe dire anche che appartiene ad ambedue – diventa un “non luogo”, un confine che determina la dinamica della vita e della fede. Gesù si definisce “porta”, passaggio attraverso cui si trova la salvezza e il pascolo. Porta aperta, passaggio decisivo per la vita, da percorrere in ambedue le direzioni nella costante ricerca di pascolo e salvezza. Porta che resta aperta perché nessuno si rinchiuda in un recinto, ma abbia piena libertà. Sembra un controsenso l’invito ad entrare e poi uscire: è un semitismo che nell'opposizione tra due termini contrari descrive la totalità di tutti i movimenti; entrare e uscire ha il gusto della libertà di chi depone ogni legame che lo tiene ancorato ad un lato o l’altro della vita.

Una porta costantemente aperta è la porta della salvezza, non quella di una prigione o di un comodo nido, non allontana, non isola, non ingabbia e non protegge: lascia ad ognuno la libertà delle sue relazioni, la fatica della condivisione, la verità del confronto, le esigenze della fede, la responsabilità della storia.

 

perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza

Tante, troppe voci ci offrono ogni giorno pezzi di vita. Politici, pubblicitari, giornalisti, commentatori, ci vendono prospettive di libertà. Ognuno ha una ricetta per la salvezza, la soluzione dei problemi dell’oggi. L’inganno è dietro l’angolo. Gesù si presenta a noi come l'unica porta che non ha trucchi, serrature nascoste, blocchi. Nella dinamica dell’entrare e uscire attraverso quella Porta non solo si sperimenta la libertà ma si concretizza il mistero grande della comunione con Cristo che dà senso alla vita e soddisfa la sete del vivere. Entrando e uscendo l’uomo intuisce che “può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere” (Benedetto XVI, Spe 30).

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