Diocesi
Non basta essere chiamati: bisogna essere generati

Una riflessione sul sacerdozio anche in vista dell’ordinazione diaconale di Franco Nocchi, in calendario lunedì 2 giugno alle 10.30 in Cattedrale.
Ieri ho ricordato con gratitudine gli otto anni della mia ordinazione sacerdotale; desidero condividere qualcosa di ciò che sento nel cuore. I passaggi della vita sono tanti. Le esperienze vissute, le persone incontrate, i formatori ricevuti, gli amici che ancora oggi mi accompagnano nella preghiera. Ma in questa occasione, ciò che più mi urge nel cuore è una parola semplice: grazie.
Ringrazio il Signore per avermi condotto nel tempo alla bellezza della vocazione diocesana. Non una chiamata tra le altre, non un ripiego, ma una forma concreta e incarnata dell’amore di Dio nella storia. La mia Chiesa diocesana di Livorno mi ha accolto, mi ha formato, mi ha rigenerato. Non si tratta solo di un’appartenenza giuridica: essere ordinato in una diocesi significa essere piantato in un suolo, in una terra concreta, e da quella terra trarre linfa, nutrimento, identità [1].
Desidero esprimere un particolare ringraziamento al nostro Vescovo, Mons. Simone Giusti, per la sua capacità di leggere i tempi con sapienza pastorale. In un momento in cui le vocazioni sembrano rare, ha saputo vedere più in profondità, accogliendo anche quelle che fioriscono in percorsi maturi e in storie segnate dalla ricerca. Con coraggio e fiducia, ha aperto un cammino per le vocazioni adulte, affidandosi a collaboratori capaci di accompagnare, ma senza mai rinunciare al suo compito proprio e insostituibile: il discernimento. Avendo sempre in mente che il Vescovo è colui che, nella sua missione, discende dal discernimento dello Spirito, ha saputo vedere la bellezza di un seminario per adulti, accogliendo anche chi, da fuori, cercava una Chiesa che sapesse nutrire e generare.
Infatti, come insegna la Chiesa, è il Vescovo il primo responsabile della chiamata e dell’accoglienza delle vocazioni nella sua diocesi. È lui che — illuminato dallo Spirito — può riconoscere il seme di Dio nel cuore di un uomo e dire quel sì ecclesiale che rende possibile il cammino. Sostenuto dai suoi collaboratori, il Vescovo resta il vero custode di questo mistero: colui che ascolta, discerne, sceglie, accompagna [2].
In questo cammino, sono grato a tante persone: ai miei formatori in seminario, in particolare a don Paolo Razzauti, che ha saputo trasmetterci non solo l’importanza dell’essere preti, ma dell’essere preti diocesani, capaci di “abitare” la Chiesa in cui si è stati ordinati. Ricordo con gratitudine come don Paolo ci facesse leggere la storia della città. Anche la città ha una vocazione, ci ripeteva. E Livorno, con la sua storia così singolare, nata come città delle nuove opportunità, continua ad accogliere — con quella sua tenerezza un po’ ruvida e verace — anche noi che veniamo da fuori.
Questa vocazione all’accoglienza, all’integrazione, alla libertà, plasma anche il nostro modo di essere preti diocesani, rendendoci capaci di sentire nostra una terra che all’inizio non conoscevamo. In fondo, non si appartiene solo a una diocesi, ma anche a una città. E ogni città ha la sua anima, che ci chiama a essere parte viva della sua storia. Non si tratta di cercare vocazioni livornesi, ma di far sì che diventino livornesi. Perché si può nascere a Livorno… senza mai appartenere davvero a Livorno. E, viceversa, si può arrivare da lontano e scoprire che questa città ti ha già adottato.
Essere presbiteri diocesani non significa semplicemente esercitare un servizio. Significa essere una presenza. Come ci ricorda la vita della Chiesa, il sacerdozio non è una missione tra le altre. È un “esserci con”, un “esserci per”, un “esserci dentro” [3]. E questo “esserci” si gioca tutto nella fedeltà quotidiana a quella comunità concreta che ci è stata affidata.
La vocazione diocesana, infatti, è chiamata a vivere nel microcosmo della Chiesa universale, che è la parrocchia. Da lì si genera tutto: la prossimità, l’ascolto, la celebrazione, la comunione. Anche quando, per necessità pastorali, siamo chiamati ad altri servizi – negli uffici, negli incarichi diocesani, o in missione come fidei donum – il cuore del presbitero diocesano deve restare radicato nel popolo di Dio concreto che gli è affidato [4].
Come afferma la Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis (2016), «il presbitero è chiamato ad essere pastore, in mezzo al popolo e con il popolo» [5]. E ancora Bruno Forte ricorda che «la parrocchia rimane la forma primordiale della comunione ecclesiale: lì il prete vive l’ordinarietà del ministero, la fatica dell’esserci e la bellezza della fedeltà» [6].
Questa verità l’ho vissuta prima a San Jacopo, e poi a Castiglioncello. Ogni volta che torno da un viaggio, e scendo alla stazione di Livorno, sento di essere tornato a casa. Non perché qui le cose siano più facili, ma perché questa è la terra che mi ha nutrito. Il mio sacerdozio appartiene a questo popolo.
Ringrazio il Signore anche per il cammino vocazionale vissuto grazie al cardinale Ennio Antonelli, che nei suoi anni di accompagnamento — anche umano e familiare — mi ha aiutato a cercare la volontà di Dio, accompagnando i miei studi e la mia libertà.
Nel rito dell’ordinazione, la Chiesa pronuncia parole decisive: «Noi scegliamo questo fratello per l’ordine del presbiterato». Non è l’individuo a scegliersi, ma è la Chiesa, per bocca del Vescovo, che riconosce in lui un segno della volontà di Dio. Si può avere una vera vocazione al sacerdozio. Ma una vocazione, per compiersi, ha bisogno di una terra in cui incarnarsi. Non basta sentirsi chiamati a diventare preti: occorre discernere se si è chiamati a diventarlo in questa Chiesa particolare [7].
La vocazione non è ciò che mi realizza. È ciò che mi inserisce. La sinergia tra il “sì” del candidato e il “sì” della Chiesa è ciò che rende la vocazione reale, ecclesiale, feconda. Senza questa comunione, si rischia di vivere per sempre altrove con il cuore, come un innesto che non trova linfa nella sua terra.
Accompagnare una vocazione significa abitare il mistero dell’altro, senza pretendere di svelarlo. La persona non si disvela, si affida. La verità di una vita non è un contenuto da illuminare, ma una relazione che si costruisce, nel tempo, nella comunione. Heidegger diceva che la verità è “aletheia”, svelamento. Ma questo è un errore teologico: le persone non si svelano, si affidano. È in questa consegna libera che si manifesta la verità, non come possesso ma come comunione [8].
Come ha detto Ioannis Zizioulas, la Chiesa è comunione di deificati: non si entra nel presbiterato per “funzionare”, ma per essere nel Corpo di Cristo, come presenza dello Spirito che agisce attraverso una comunione ontologica generata da un gesto potente: l’imposizione delle mani [9].
E guardando indietro, vedo tanti confratelli ordinati in questi anni, ognuno con la sua storia, e tutti inseriti in un unico corpo. Don Vincenzo, don Gerardo, don Matteo, don Alessandro, ordinati il 2 giugno. E anche Franco, che proprio il 2 giugno sarà ordinato diacono transeunte, primo passo verso il presbiterato. Prima di loro, don Bruno, don Lorenzo, don Simone, don Federico… un fiume di grazia che attraversa questa terra.
Non si tratta di ruoli o di incarichi, ma di un essere generati da una terra, nutriti da una linfa, e restituiti alla Chiesa per amore.
Perché, alla fine, non basta essere chiamati: bisogna essere generati.
Fonti
[1] P. Špidlík, Il mio testamento spirituale, Lipa 2007.
[2] Pastores Dabo Vobis, n. 41.
[3] Ispirazione da P. Rupnik, Servi della gioia, ma non citato.
[4] Olivier Clément, Il respiro dello Spirito.
[5] Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, n. 43.
[6] Bruno Forte, Lettere ai preti, ed. San Paolo.
[7] Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, cap. 2.
[8] Heidegger, Essere e tempo (contestato teologicamente).
[9] Ioannis Zizioulas, Comunione e alterità.