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Entro il 2065 gli italiani saranno 12 milioni in meno rispetto a oggi

Gli elenchi delle cose da fare non si contano più

Parole chiave: culle vuote (2), denatalità (7)
La tragedia delle culle vuote che nessuno prende sul serio

Con le nuove previsioni dell’Istat e delle Nazioni unite sull’evoluzione della popolazione, ci si è tornati a preoccupare per le sorti demografiche del Paese. Quello di allarmarsi per l’estinzione degli italiani è un rituale consolidato, che si ripete da tempo alla pubblicazione di ogni rapporto, senza però che alle grida seguano azioni conseguenti e coerenti.

In realtà nemmeno questa volta è cambiato moltissimo nelle cifre, se non che la prospettiva è ulteriormente peggiorata rispetto alle previsioni di pochi anni fa. In parole povere: saremo ancora di meno di quanto pensavamo.

Il problema è che i numeri sulla popolazione sono difficili da capire, per la loro grandezza. Dire cioè che entro il 2065 gli italiani saranno 12 milioni in meno rispetto a oggi, o che tra 80 anni nella Penisola vivranno 37 milioni di persone, e non più i 40 milioni previsti solo poco tempo fa, significa offrire misure che è complicato afferrare, dunque è difficile scaldare gli animi. Anzi, il rischio è trasmettere l’idea che decongestionando il Paese potremmo stare persino un po’ meglio. Con tutti gli abitanti che ci sono sulla Terra! E con tutti i bambini che nascono nel mondo! E con tutto l’inquinamento che si produce già ora! Sono in tanti, insomma, a pensare che una demografia negativa potrebbe essere persino un’opportunità.

In realtà c’è poco da stare allegri, e per fortuna oggi non pochi hanno compreso che finché il numero di figli per donna resterà ampiamente sotto quota 2, un aumento delle nascite non porterà comunque a una crescita della popolazione, ma riuscirà semmai solo a migliorare un po’ il mix delle generazioni, cioè ad alzare la quota di giovani al lavoro rispetto ai moltissimi anziani in pensione – ma è meglio dire “in età da pensione”, perché non è ben chiaro chi li pagherà domani gli assegni previdenziali (per comprendere ancora meglio questi concetti si deve leggere l’ultimo saggio di Alessandro Rosina, “Crisi demografica”, Vita e Pensiero). Ma forse non è nemmeno questo il punto. In Italia nessuno sembra voler realmente fare qualcosa di importante e significativo per contrastare il suicidio demografico. C’è una famosa battuta di un film di Quentin Tarantino, “Kill Bill”, che sembra fare al caso nostro: «Quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire». L’estinzione, cioè, ce la siamo apparecchiata perbene. A partire dai fondamentali. La crisi del sentimento amoroso, inteso come la capacità di legarsi a qualcuno in modo stabile e poi di fare cose “ovvie”, per citare una suggestione tratta da un gran bel libro, “Leggero come l’amore”, di Riccardo Mensuali (Edizioni San Paolo), potrebbe avere una sua responsabilità. Ma in tal caso, è il ragionamento sotteso, vorrebbe dire che siamo ormai retrocessi al livello di quegli istintivi dei Neanderthal, che non a caso hanno poi lasciato il terreno di gioco ai Sapiens, molto più evoluti anche da un punto di vista emotivo. È come se l’espansione a elastico dell’universo italico fosse finita e stessimo ritornando velocemente al Big Bang. I borghi si spopolano, le terre di mezzo arrancano, le città generano single – e, in caso di età avanzata, solitudini. L’unico immaginario concesso sembra ridursi al desiderio di una fuga per ritrovare sé stessi, là dove un po’ di memoria resiste, il cuore non si congela, le Ztl non si espandono. Un romanzo recente, “L’equilibrio delle lucciole” (Salani), scolpito con dolcezza da Valeria Tron, sembra condurre proprio di fronte 

al bivio esistenziale che ci aspetta.

Eppure non è scontato che la ricucitura paziente degli affetti si accompagni anche a un desiderio ardente di futuro e di quella generatività che consente di mantenere accesa la luce di una famiglia in tutte le case. Anche perché il margine è veramente risicato: è l’intero mondo a procederecompatto al passo del calo demografico, tendenza all’interno della quale in Occidente soltanto i paesi più sviluppati socialmente ed economicamente riescono a contenere i danni.

 . Una nuova ordinata e razionale disamina del problema demografico è offerta da un saggio uscito da poco, “La trappola delle culle” (Luca Cifoni e Diodato Pirone, Rubbettino), che si concede di fornire un elenco di soluzioni operative, ad uso di politici di buona volontà e burocrati sensibili. In verità basterebbe copiare dai “virtuosi”, senza troppa fatica, se non fosse che i frutti di una politica natalista si raccolgono nei decenni, e non alla prossima tornata elettorale. Esempi? La solita Francia o la solita Germania, per dire, in un modo o nell’altro scontano qualcosa come 2.5003.000 euro l’anno per ogni figlio, a tutte le famiglie. Poi se i figli sono più di due va ancora meglio. Poi, ancora, arrivano tutte le altre cose come i congedi, i permessi, gli asili, e via dicendo, che servono a mettere i genitori a loro agio. Da noi, per quanto si predispongano assegni unici o family act, l’impostazione di base è sempre una, e una soltanto: quella che ha portato i bonus per tagliare le tasse ai redditi medi a prescindere dai figli; quella che ha esteso e aumentato il taglio del cuneo sempre a prescindere dai figli; quello che distribuisce il Reddito di cittadinanza penalizzando le famiglie numerose; quello che ha concesso il bonus energia solo ai redditi medio-bassi, pur se in assenza di figli e dunque senza tenere conto delle lavatrici settimanali obbligatorie; quella che ha concepito l’Assegno Unico per 7 milioni di famiglie, ma l’ha reso così ostile attraverso l’Isee che solo tre nuclei su quattro lo hanno chiesto; quella che vuole la flat tax, ma non importa se c’è della prole in casa oppure no.

Rispetto alle migliori politiche europee per la natalità, insomma, la differenza è che qui i figli non fanno mai la differenza, se si tratta di dare una mano. Non a caso a rischiare le povertà, o anche solo ad essere meno ricche di quello che dice il reddito, in Italia, sono sempre e soprattutto le famiglie con figli.

Svariate decine di miliardi sono state impiegate negli anni per rilanciare qualcosa, ma non era la natalità, o per aiutare qualcuno, ma non erano le famiglie con prole. È vero, qualcosa è cambiato negli ultimi mesi e molto altro può cambiare, dalla messa a regime dell’Assegno unico ai fondi del Pnrr per gli asili. Ma il cammino è lento e non reggerà il passo della storia, dei governi che si alternano, delle crisi climatiche ed energetiche che si palesano, delle guerre che continuano. Saremo molti di meno, saremo soprattutto anziani e saremo piuttosto soli. Forse si fa prima a imitare i Sapiens, e ripartire semplicemente dall’amore.

Fonte: Avvenire
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