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Il coronavirus ha chiarito che la respirazione non è una "terapia"

Mai come nei due mesi di lockdown è parso chiaro a tutti gli italiani che vivere e morire non sono due opzioni equivalenti. Con l'eclissi della morte come "diritto"

Parole chiave: fine vita (39), covid (52)
Fine vita

Il coronavirus ci sta obbligando a ripensare per intero il modo di vivere, rimodellando la nostra esistenza intorno a comportamenti e stili di vita finora inconcepibili. Un organismo antico e ignoto ci ha imposto un cambiamento antropologico improvviso e drastico, che si innesta su quello, molto più lento, che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, causato invece dalla nostra opera umana, cioè dallo sviluppo biotecnologico, segnato dai “nuovi diritti” e dalle grandi battaglie della bioetica. Il Mondo Nuovo ante Covid 19, così vicino nel tempo, è invecchiato di colpo: il coronavirus è il grande occhiale che rimette a fuoco la vista, ristabilendo priorità, interessi e urgenze.

La pandemia ha innanzitutto rimesso al centro il valore della vita di ogni essere umano, chiarendo con una drammaticità indicibile che vivere è nettamente preferibile a morire, e che il buon medico è colui che cerca di salvare i suoi pazienti, facendo di tutto per strapparli alla morte, fino alla fine. Il dottore eroe che rischia la vita per curare i malati, la dottoressa con la mascherina che culla amorevolmente l’Italia: concetti e immagini improponibili nella narrativa mediatica e bioetica prima del Covid, quando la bussola era il diritto all’autodeterminazione individuale.

Va detto che non si tratta di un ritorno improvviso a orizzonti valoriali di un tempo passato. Nessuno in questi mesi di pandemia ha messo in discussione i cosiddetti diritti civili, dal testamento biologico vincolante all’autonomia del paziente, passando per la regolamentazione del suicidio assistito: semplicemente all’improvviso non se ne è parlato più perché sono diventati temi marginali. In Olanda le autorità sanitarie hanno dovuto ammettere che somministrare l’eutanasia non è una priorità, e che i medici devono invece prima di tutto curare i malati del contagio. Ormai è chiaro per chiunque, in tutto il mondo, che un respiratore non curerà l’infezione da coronavirus ma è un mero sostegno vitale (ricordiamo che la legge 219 sul biotestamento considera alimentazione e idratazione artificiale, e di conseguenza anche la ventilazione, al pari di terapie, e non sostegni per la sopravvivenza), cioè serve a cercare di tenerti in vita mentre combatti la tua battaglia contro il virus. Sono sparite dai media espressioni come “respirazione forzata” o preoccupazioni per “essere attaccati a una macchina”. E se è vero che si tratta di situazioni temporanee (nelle terapie intensive ci si sta al più per qualche settimana), è anche vero che non risulta che qualcuno abbia rifiutato il respiratore, o abbia posto problemi al momento di essere intubato, perché preoccupato della futura qualità di vita.

Ci siamo accorti piuttosto di quanto sia inumano morire da soli: la consapevolezza della sofferenza finale di un proprio caro, vissuta in solitudine, è la ferita che tarderà più di tutte a rimarginarsi in chi ha perso un familiare o una persona vicina. Al tempo stesso nuove urgenze emergono: ci siamo resi conto che esistono le persone anziane, e che sono fragili. Una fragilità globale, a partire dalle difficoltà di uso degli strumenti informatici e dell’accesso alla rete, unico mezzo per vivere una qualche forma di socialità in tempo pandemico. Ci siamo indignati all’idea che qualcuno potesse anche solo pensare di escludere gli anziani dalle terapie intensive: in Italia il Comitato nazionale per la bioetica ha definito eticamente inaccettabile adottare l’età (e qualsiasi altro parametro non clinico) come criterio di accesso alle cure, quando queste scarseggiano.

Ci siamo commossi nel vederli morire, i nostri anziani: così tanti, così soli, così inermi. Ma soprattutto abbiamo improvvisamente capito quando ognuno di noi inizia a essere una persona anziana: il passaggio di condizione lo ha stabilito il coronavirus, più aggressivo con gli ultrasessantenni, tanto che si è arrivati a discutere pubblicamente della possibilità di confinare a casa per mesi proprio gli over 60, più a rischio degli altri. Un’età per la quale, fino a qualche mese fa, si raccontava piuttosto della possibilità di ricominciare una nuova vita, nuovi amori, magari con qualche “aiutino” farmacologico.

Insomma: si discuteva bioeticamente di transumanesimo e di potenziamento dell’umano, e all’improvviso ci si è trovati vecchi e vulnerabili. Ci siamo trovati improvvisamente a fronteggiare un virus beffardo e impietoso con le nostre fragilità, con implicazioni importanti sulle priorità esistenziali: non dobbiamo evitare di farci i conti. Trattarlo come una parentesi nelle nostre vite sarebbe il peggiore degli errori.

Fonte: Avvenire
Fine vita
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