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Sono gli stessi giudici a precisare che «prerequisito della scelta» dovrebbe essere «un percorso di cure palliative» in grado di mettere «il paziente in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza

Il dibattito in Parlamento

Nell’ordinanza della Corte costituzionale c’è il criterio determinante indicato al Parlamento per legiferare sui casi dei malati «estremi»

Parole chiave: cure palliative (4), fine vita (39)
Cure palliative, il paletto della Consulta

Eutanasia. Ruota attorno a questa parola il dibattito – parlamentare e non – sollevatosi dopo l’ordinanza 207 dalla Corte costituzionale (16 novembre 2018), il provvedimento che ha invitato le Camere a considerare le richieste di morte provenienti da alcune tipologie di malati particolarmente gravi. Eppure nel testo della Consulta il sostantivo 'eutanasia' non ricorre nemmeno una volta: la vicenda giuridica da cui scaturisce la pronuncia – quella di Marco Cappato, che ha agevolato in Svizzera il suicidio di dj Fabo nel febbraio 2017 – ruota attorno all’articolo 580 del Codice penale, che punisce con la stessa pena (reclusione da 5 a 12 anni) sia chi istiga qualcuno a porre fine alla propria vita sia chi ne coadiuva l’ultimo gesto.

Sarà forse anche per questo che il Parlamento, finora, non ha trovato un punto di sintesi. Da una parte c’è il M5s che – forzando l’ordinanza – si fa convinto sponsor delle 4 proposte di legge fortemente eutanasiche attualmente depositate a Montecitorio (quella d’iniziativa popolare, promossa dall’associazione radicale Luca Coscioni, cui si sommano quelle a prima firma di Andrea Cecconi, ex M5s ora gruppo misto, Doriana Sarli, M5s, e Michela Rostan, Leu). Dall’altra c’è il secondo azionista di maggioranza, la Lega, con un testo che vorrebbe ridurre – ma non eliminare – la pena per chi aiuta a morire un parente gravemente sofferente, rendere fruibili da tutti – come già prevederebbe la poco applicata legge 38 del 2010 – le cure palliative e considerare idratazione e nutrizione assistite – diversamente da quanto prevede la legge 219 del 2017 sul biotestamento – elementari sostegni vitali, dunque non rinunciabili.

Posizioni inconciliabili, che le commissioni Affari sociali e Giustizia della Camera non sono sinora riuscite a condensare in un testo unico da sottoporre all’esame dell’Aula, dove l’approdo del testo, più volte rimandato, ora slitterebbe a settembre: se così fosse, l’approvazione definitiva non sarebbe possibile entro il 24, termine ultimo fissato dalla Consulta. Eppure, analizzando con attenzione l’ordinanza della Corte, una via sembra chiaramente segnata.

E non è certo quella eutanasica. Innanzitutto, precisano i giudici costituzionali, «do- vere dello Stato» è di «tutelare la vita di ogni individuo», «non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Da qui, la conseguenza per cui il reato di aiuto nel suicidio «conserva una propria evidente ragion d’essere», soprattutto «nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto ». Ciò detto, per la Corte «occorre considerare specificamente » alcune particolari situazioni: quelle, per esempio, di «una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli». In tali casi estremi, ammettono i giudici, l’agevolazione al suicidio sarebbe «l’unica via d’uscita».

Ma attenzione: sono gli stessi giudici a precisare che «prerequisito della scelta» dovrebbe essere «un percorso di cure palliative» in grado di mettere «il paziente in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza». Quello di ottenere la morte non potrebbe dunque diventare in ogni caso un diritto generalizzato ma dovrebbe costituire una scelta drammatica percorribile in rari e assai specifici casi. E, comunque, dopo il fallimento certificato delle cure palliative. Appare dunque evidente come le proposte di legge eutanasiche finora discusse in Parlamento non rispecchino il dettato della Corte, tradendone lo spirito.

La Consulta pone infatti come regola la tutela della vita, e come eccezione assoluta l’accoglienza delle istanze di morte, ma solo dopo aver esperito tutte le possibili terapie palliative. Basti pensare alle condizioni che la Corte suggerisce al Parlamento perché possa essere accolta una richiesta di suicidio assistito: non sono sufficienti la presenza di una grave malattia e il desiderio di farla finita. Bisogna che la patologia sia irreversibile, che la persona sia tenuta in vita attraverso costanti presidi medici, abbia sperimentato le cure palliative, e nonostante queste sia sempre sofferente e desiderosa di morire. Insomma: lungi dall’obbligare il Parlamento a sdoganare l’eutanasia per tutti, i giudici costituzionali sembrano auspicare l’apertura di una stretta via d’uscita per un ridotto numero di casi limite, uniche situazioni nelle quali – a loro avviso – le leggi attuali non tutelano i princìpi sanciti dalla nostra Carta fondamentale. Ed è proprio da un’analisi oggettiva dell’ordinanza che dovranno (ri)partire le Camere.

Cure palliative, il paletto della Consulta
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