Diocesi
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Non è una questione di competenza, ma di vita

Tante considerazioni sui ragazzi e sulle ore trascorse con loro

Gli insegnanti di religione riuniti in Assemblea
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Il nostro compito scolastico, almeno nella nostra disciplina [Religione cattolica], non si può esercitare mai senza che il nostro io sia presente. A noi non si chiede soltanto una competenza, si chiede di condividere una vita con i nostri ragazzi”.

Parte da qui il confronto aperto tra IdRC in un dialogo che si è protratto in due serate. La prima dedicata all’infanzia e alla primaria, la seconda con la scuola secondaria di primo e secondo grado. È stata un’occasione per fare un lavoro su di sé, di riflettere sul proprio modo di essere insegnante e, in particolare, insegnante di religione.

Ogni educatore ha il compito di collaborare alla crescita dei ragazzi loro affidati e l’io umano può crescere soltanto dentro un rapporto.

 “Quando mi trovo con i miei alunni delle elementari o dell’infanzia -afferma una giovane insegnante-  quante volte è arrivata la domanda che non ti aspetti in un momento che non ti aspetti. Ma nonno è in paradiso? Ma Dio esiste? Ma perché si muore? Allora si aprono strade che non ti

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aspetti, orizzonti che ti sorprendono. Mi sono chiesta quale fosse la risposta giusta da dare a queste domande accorgendomi che non c’è una risposta giusta se non quella di presentare il pezzetto di strada in più, dovuto semplicemente alla differenza di età tra me e i miei alunni, da me percorso su queste stesse domande. Quello che ho capito non è dare risposte, ma cogliere quegli attimi preziosi che nel nostro lavoro Dio ci presenta. I bambini hanno dentro di loro la risposta, sta a noi guidare a farla uscire.”

 Ma l’educazione non è forse una comunicazione di sé: del proprio modo di rapportarsi con il reale?

 “Il bambino è un attento osservatore, -dichiara un’altra insegnante- niente  sfugge ai suoi occhi, non solo per quel che riguarda una serie di comportamenti manifesti, ma mi riferisco a tutta una  serie di stati d’animo che ognuno di noi inconsapevolmente lascia trasparire e che non

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sfuggono agli occhi dei nostri piccoli e questo noi insegnanti lo sappiamo bene. Per questo motivo credo sia importantissimo che ogni adulto, a contatto quotidianamente con bambini,  debba essere un bell’esempio di umanità.”

 Come può risvegliarsi nelle giovani generazioni la coscienza dell’umano se non attraverso adulti testimoni di eccellente professionalità e autentica umanità, volta ad andare al fondo del significato vero delle cose? Cioè del Cristo presente?

 “Non è facile spiegare a parole quello che succede durante queste “ lezioni” ma il brillio degli occhi, le mani alzate, la voglia di parlare e di raccontarsi  mi rende felice e forse questo i bambini lo percepiscono.” –asserisce una insegnante da diversi anni in servizio-.

 Quanto è importante la passione con cui facciamole cose! Sicuramente questo atteggiamento aiuta molto –affermano tante maestre- non solo per una accoglienza nei confronti

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dei bambini, ma soprattutto per stabilire un rapporto di fiducia e rispetto con le famiglie: “in quanto insegnanti di Religione Cattolica, siamo chiamati a dare ragione della nostra Speranza e a essere portatori di Gioia quotidiana

 “Spesso mi capita di raccontare loro quello che faccio, l’importanza di vivere in comunità, che sia un’associazione o una comunità parrocchiale, il condividere la messa e chiaramente aiutare gli altri, che possono essere dei “poveri”, ma anche i compagni di classe, i vicini ecc…

Noi possiamo scegliere se essere degli insegnanti di Religione Cattolica, seguendo e facendo tutto il programma (come fanno tutti gli altri insegnanti), oppure fare qualcosa di più, facendo questo in più, credo li aiuteremo nel loro cammino di crescita.”

Quando dal Primo ciclo di studi si passa al Secondo ciclo o Scuola Secondaria, meglio conosciute con il vecchio appellativo di Medie e Superiori, le riflessioni assumono un aspetto diverso. Sono gli studenti che, man mano che crescono, sono chiamati a fare le loro scelte in maniera più consapevole, come sostiene una ragazza di terza liceo :

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L'ora di IRC l'ho scelta perché, pur non essendo credente, la reputo una materia importante per il nostro cammino culturale. La chiesa cattolica è stata ed è ancora oggi una istituzione che propone valori e scelte sociali che hanno caratterizzatola la storia europea. Molte discipline scolastiche fanno riferimento al mondo cattolico che va conosciuto proprio per questa sua incidenza. Inoltre l'IRC è l'unica materia che ci invita a riflettere e a confrontarsi con un pensiero ben preciso. E il professore di Religione è l 'unico docente scelto. Io ho avuto, nel corso degli studi, insegnati molto preparati che si sono posti in un dialogo particolarmente impegnativo con gli studenti”

Cosa vuol dire condividere la vita dei ragazzi, favorire un'esperienza? Che l'ora di Religione è interessante quando il contenuto ha a che fare con la vita dei ragazzi, quando il senso della vita è in gioco. Altrimenti possiamo trasmettere un contenuto senza essere presenti. Le modalità, poi, sono lasciate alla libertà e alle condizioni di ciascun insegnante. La lezione non può essere una ripetizione di quello che l'ldR ha imparato, anche se  non può far finta che i programmi stabiliti dai Vescovi non ci siano. Ma se quello che dice non succede per lui in quel momento in cui lo afferma, non incide. Ho conosciuto giovani che sapevano tutto della dottrina, ma spenti come presenza. Questo serve al massimo per una scelta etica.

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Un punto importante da considerare, afferma un insegnante, è “quello della significatività della relazione (e dunque quello delle competenze relazionali), quello dell’adultità (cioè del modo di essere adulti in relazione, ovvero della testimonianza)”.

Favorire un’esperienza, intesa non come provare, ma come capacità di giudicare le circostanze secondo la verità delle stesse, cioè capire una cosa, lo scoprirne il senso. L’esperienza quindi implica intelligenza del senso delle cose. Concretamente esperienza è vivere ciò che mi fa crescere.

Questa attenzione necessaria nei confronti dei propri alunni, si evince bene da alcuni interventi in assemblea:

il primo modo con il quale manifesto amorevolezza, apertura e disponibilità al dialogo è preparare me stesso ad una presenza non giudicante, a non dire subito “giusto” o “sbagliato”, a non trattare tutto come un dogma, a non troncare a metà il discorso del ragazzo, a non guardarlo con occhi di sufficienza.”

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Siamo gli insegnanti più fortunati perché i nostri alunni ci scelgono e, scegliendoci, ci manifestano la loro fiducia, ci insegnano a riflettere sul nostro operato; in poche parole, ci accompagnano nella nostra vita di docenti, ci sostengono, ci sollecitano, ci obbligano (anche quando non ne avessimo voglia …) a riflettere su noi stessi: proprio come noi facciamo con loro!

 “C’è spesso un equivoco gigantesco in ambito educativo: l’idea di ritenere che un educatore, per essere una buona guida, non debba mostrare la propria fragilità, ma al contrario, mostrarsi sicuro. Io penso, al contrario, che il dono più grande che io posso fare ai miei alunni, è il dono della mia insufficienza, del mio limite, della mia precarietà, della mia fragilità. È a partire dal mio limite che la mia umanità può interrogare la loro umanità, altrettanto segnata dalla precarietà, ed è a partire da questo incontro che la relazione può nascere, con tutto ciò che ne consegue.” 

Noi siamo insegnanti della sintesi, innanzitutto sul piano della mediazione culturale e del servizio educativo. Dobbiamo favorire la sintesi tra fede e cultura, tra Vangelo e storia, tra i bisogni degli alunni e le loro aspirazioni profonde.”

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Onestamente ogni mattina mi sveglio ed ho dei dubbi su come sto accompagnando i ragazzi in questo percorso, se gli sto lasciando qualcosa, se la mia libertà di insegnamento che si declina sulle corde del mio essere cristiana, può aiutarli o meno. Poi prego e mi affido, e cerco ogni mattina di entrare in classe con un sorriso, li chiamo per nome, cerco di essere severa quando è necessario perché rispettino la nostra disciplina al pari di ogni altra, ma al contempo di essere accogliente, di stimolare un dibattito che porti il frutto di una riflessione. Sto imparando ad usare tecnologie ed app che non conoscevo, sotto il consiglio di altri colleghi, ed effettivamente vedo un rinnovato interesse anche per la metodologia nel fare la materia da parte dei ragazzi. (…) Io non so se quello che faccio lo sto facendo bene, sono consapevole che potrei migliorare, ma lo faccio con amore, perché per me insegnare Irc è una scelta, una risposta a una chiamata, a una vocazione che ho sentito nascere dentro di me, che ho combattuto a tratti, ma da quando l’ho accolta mi ha portato solo ricchezza.

Qualcuno è arrivato a dire che queste riflessioni “stravolgono il tradizionale insegnamento dell’IRC”.

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Un insegnante attento, non può non cogliere il grido che spesso traspare dagli occhi degli alunni che ha di fronte: non mi lasciare solo, tirami fuori dal nulla, dall’apatia, dalla solitudine. Un “padre” non può lasciarli soli!

Si può fare questo lavoro. Ma come per i nostri studenti, siamo chiamati in prima persona, come vogliamo che i nostri ragazzi siano i protagonisti della loro vita, anche per noi è così: è il dramma della libertà, il dramma della nostra libertà, che va in scena ogni giorno, e che è ben descritto da “George Gray”, nell’antologia di Spoon River:

 

«Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione

ma la mia vita.

Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;

l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia,

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio –

è una barca che anela al mare eppure lo teme» 

Siamo come una barca che anela al mare, non può non attenderlo, perché questo anelito è costitutivo, eppure lo teme. Ecco, allora, che si apre la lotta: assecondare l’anelito al mare, la fame di una vita piena di significato, oppure ritirarsi, accontentarsi, non rischiare, per paura degli imprevisti. È di questa tentazione di ritirarci dalla nostra umanità, di risparmiarci gli imprevisti per paura, rimanendo al sicuro a bordo di «una barca con vele ammainate, in un porto», che parla Gesù nel Vangelo quando racconta la parabola dei talenti.

Prendere sul serio il proprio bisogno, la fame e la sete di una vita piena, è il primo segno di affezione a sé, che è la cosa meno scontata che ci sia.

Mi è parso di cogliere negli astanti il desiderio di continuare su questa strada. Infatti le assemblee di queste due serate vogliono essere l’inizio di un lavoro che proseguirà il prossimo anno nel quale vorremo che tutti si giocassero la libertà di essere ciò che dà gusto al proprio compito, riassunto nelle parole del Vescovo, quando all’inizio dell’A.S. consegna il “mandato” a ciascuno degli IRC:  “…mando te a rendere presente la Chiesa di Livorno nel mondo della scuola insegnando Religione Cattolica…”.

Una bella sfida! Occorre rischiare -e questo vale per tutti, insegnanti e non-, mettere in gioco se stessi, non stare a guardare dal balcone, come richiama il Santo Padre Francesco.

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