Tre anni senza don Francesco

L'omelia nella Messa a Castiglioncello

Nella parrocchia di S. Andrea e Immacolata concezione a Castiglioncello, si è celebrata una Messa per don Francesco Fiordaliso, per diversi anni alla guida della comunità. Il parroco attuale, don Marcelo Lavin, a tre anni dalla morte, ha voluto ricordarlo così don Francesco.

Ci sono persone che, nella vita, si fanno notare. E ce ne sono altre che, invece, scelgono di non mettersi al centro, di non imporsi, di non prendere spazio. Eppure, proprio per questo, lasciano una traccia profonda. Francesco, per molti di noi, è stato così.

Oggi la liturgia ci offre parole forti. Negli Atti degli Apostoli, Paolo parla agli Ateniesi, uomini religiosi che però non conoscono il Dio che adorano. Dice loro: “Ciò che voi adorate senza conoscere, io ve lo annuncio.”

È un passaggio che mi ha fatto pensare a Francesco: non perché non conoscesse Dio — anzi — ma perché la sua fede era inquieta, non sistemata, non addomesticata. Non gli piacevano le formule chiuse, le etichette, le parole facili. Era, per certi versi, un credente che cercava, e forse anche per questo sapeva riconoscere il volto di Dio nei poveri, nei piccoli, nei cammini incompiuti degli altri.

Nel Vangelo, Gesù dice: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità.”

Francesco non pretendeva di avere la verità in tasca. Credo che fosse uno di quelli che si lasciava guidare, anche a fatica, dallo Spirito. Non ha mai forzato le cose. Non ha invaso i territori altrui. Anche nella sua esperienza ecclesiale, non era uno che cercava riconoscimenti, né visibilità. Era riservato, spesso critico, a volte ruvido, ma mai invadente.

E lo dico anche per me, con semplicità: quando sono arrivato io, lui c’era, abitava lì accanto, avrebbe potuto dire la sua su tutto, e invece ha scelto di stare al suo posto, con discrezione, lasciando spazio, lasciando respiro. Questa capacità di non occupare ciò che non gli competeva, oggi la riconosco come una finezza spirituale rara, un rispetto profondo. Anche questo è carisma.

E, come ogni carisma, non va contrapposto ad altri. Ci sono preti che vivono con fedeltà e gioia l’impegno quotidiano, le regole della vita ecclesiale, le responsabilità visibili: anche questo è Vangelo. Francesco ha scelto una via più nascosta, ma non per disprezzo delle altre; piuttosto, per fedeltà a ciò che sentiva suo.

Francesco aveva il suo carattere, sì. Non era docile, non era facile, non era uno che si adattava. Ma leggendo le sue parole scritte per i 50 anni, si sente un’anima che non si è mai accontentata, che ha sempre sentito l’inadeguatezza come spinta a non fermarsi. Non ha vissuto la sua vita come una celebrazione, ma come un cammino. A tratti faticoso, spesso sincero.

Oggi ci accorgiamo che la sua presenza ha lasciato qualcosa, perché quando qualcuno viene ricordato con affetto, con verità, significa che ha lasciato un solco.

E questa, in fondo, è la speranza di ciascuno di noi: non passare invano. Che qualcuno, un giorno, possa dire: “mi ha lasciato spazio, mi ha rispettato, mi ha insegnato qualcosa senza imporsi.”

Non perché fosse migliore, ma perché era autentico. Come lo sono, in modi diversi, tanti altri che lasciano un segno nella vita della Chiesa.

Il Salmo 148 ci invita a lodare Dio in tutte le sue opere. Francesco non ha cercato applausi, ma forse ha vissuto in modo autentico una forma di lode nascosta, concreta, fatta di gesti semplici. Non ha cercato gloria, ma ha fatto spazio a Dio e agli altri. Ed è proprio nel lasciare spazio che spesso si vede la statura vera di una persona. Eppure anche chi riempie quello spazio con fedeltà e responsabilità, a volte con fatica e senza clamore, loda Dio in modo altrettanto profondo. Nella Chiesa c’è bisogno di entrambe le cose: chi apre spazi e chi li abita.

Oggi lo affidiamo con sobrietà, con affetto, alla misericordia del Padre.

Lo affidiamo a quel Dio che lui ha cercato tra mille volti, che ha servito tra le strade, nel carcere, nelle sue passioni più sincere. Lo affidiamo con le sue fatiche e le sue luci. E gli diciamo grazie. Perché ha lasciato un’impronta.

E perché quella discrezione che oggi ci commuove, è la sua forma più bella di amore. Ma forse, la cosa più vera che possiamo dire oggi, è che Francesco non cercava di essere ricordato. Non costruiva personaggi, non si preoccupava di lasciare un’immagine. Eppure la sua assenza oggi fa rumore, e la sua presenza — nella memoria di molti — rimane come un’impronta: un gesto, una parola, uno sguardo che ha lasciato segno.

Mi torna in mente quella domanda che si fa durante il Battesimo: “Che nome volete dare al vostro figlio?”

È una domanda semplice, ma piena di mistero. Perché per noi cristiani il nome è una parola profonda, che accompagna tutta la vita. A volte il suo significato resta nascosto. Altre volte si svela piano, quasi alla fine, come un frammento di verità che solo lo Spirito sa mostrare.

Francesco portava questo nome: un nome che — lo sappiamo — vuol dire “uomo libero”. E certo, non è che fosse sempre così: Francesco era critico, a volte difficile, spesso inquieto. Ma forse, proprio in quell’inquietudine, c’era il germe di una libertà vera. Non quella perfetta, ma quella che non si arrende, che non si chiude, che continua a cercare.

E allora sì, forse il suo nome non era una definizione, ma una chiamata che lo ha accompagnato fino alla fine. Una parola aperta. Una parola che, oggi, ci aiuta a ricordarlo così com’era: non arrivato, ma in cammino. Non santo, ma vero.

Francesco era uno che, come ha scritto lui stesso, “si sentiva più portato dallo zaino che portatore dello zaino”. Non si è mai sentito arrivato. Si percepiva spesso indietro rispetto a quello che avrebbe voluto essere. Ma questa inquietudine non lo ha paralizzato, lo ha tenuto vivo.

Non era entusiasta di compiere 50 anni, diceva che gli davano fastidio, eppure li ha affrontati con gratitudine e stupore: due parole sue, che oggi diventano anche nostre. Lo Spirito Santo non ha bisogno di strumenti perfetti, ma di cuori veri.

E Francesco, con tutti i suoi limiti, con il suo carattere burbero e la sua gentilezza nascosta, ha lasciato passare Dio.

Come lo Spirito che — dice il Vangelo — non parla da sé, ma dice quello che ha udito, anche Francesco non ha parlato di sé, ma ha lasciato che il Vangelo parlasse attraverso i gesti, i silenzi, i margini. Forse è per questo che la gente lo ha amato.

Non sempre con parole spirituali, a volte con gesti umani, un ricordo, una commozione. Ma in quel ricordo c’era qualcosa di più, qualcosa che non era solo umano. C’era una traccia di Dio, anche se nessuno sapeva spiegarla.

E allora oggi, nel continuare a portarlo nella preghiera e nella memoria, non ci resta che il grazie.

Un grazie che sa di verità, di stima, di stupore per ciò che lo Spirito ha fatto attraverso di lui. Anche se Francesco, con il suo stile, direbbe: “non esagerare, dai”. Va bene. Non esageriamo. Ma riconosciamo. E affidandolo al Padre, diciamo con semplicità: hai lasciato spazio — e proprio per questo — hai lasciato un segno .